Indirizzo di saluto al termine della ordinazione episcopale

Indirizzo di saluto di S.E. Mons. Alfonso Raimo, Vescovo ausiliare, al termine della ordinazione episcopale del 1 giugno 2024.

 

Ho cercato invano di raccogliere e ordinare pensieri sparsi che in questi giorni affollano la mia mette e si rincorrono confusamente, suscitando sentimenti spesso contrastanti. A rendere più solido il timore che è andato crescendo con l’avvicinarsi della data odierna sono caute sotto il mio sguardo le parole del card. Martini il quale affermava che “quando uno è stato chiamato al ministero della presidenza episcopale viene posto in qualche modo sopra un candelabro e deve dare il buon esempio a tanti, soprattutto ai sacerdoti”. Mi è di conforto la prospettiva di poter continuare a servire la Chiesa che è in Salerno-Campagna-Acerno in continuità con quanto ho cercato di fare nei miei 34 anni di vita sacerdotale, soprattutto in questi ultimi 4 anni in qualità di vicario generale della Arcidiocesi. Esattamente 4 anni fa in questo giorno iniziava il mio incarico che mi ha permesso di conoscere in maniera approfondita la mia diocesi e di entrare nelle pieghe di storie e tradizioni delle numerose comunità che la compongono, apprezzando ancora di più le fatiche pastorali dei confratelli parroci. Ringrazio di cuore il nostro arcivescovo Mons. Bellandi di avermi offerto questa opportunità riponendo la sua fiducia in uno sconosciuto, e ancora di più per avermi confermato nel servizio dopo avermi conosciuto. Se nel primo caso ha chiuso un occhio, nel secondo li ha chiusi entrambi.

In questo tempo è stato motivo di disorientamento ed imbarazzo, cari confratelli, il dato che spesso è emerso dal giorno dell’annuncio della mia nomina da parte del Pontefice, relativo agli anni trascorsi dall’ultima consacrazione episcopale di un presbitero della nostra arcidiocesi. Mi accompagna da allora il ricordo di tanti sacerdoti che per attitudine pastorale, profondità di dottrina e santità di vita sarebbero stati più degni di stare al mio posto. La domanda sorge spontanea. Perché a me? Consapevole dei miei evidenti limiti e delle fragilità emerse nel corso dei tanti anni di vita sacerdotale e di impegno pastorale posso sinceramente confessare che non ho mai desiderato l’episcopato. Pur sforzandomi nel ripercorrere con la memoria i miei impegni passati non trovo meriti, o, almeno, non ne trovo più dei miei confratelli sacerdoti.  Il card. Martini in un celebre libretto dedicato all’episcopato scrisse: “tra gli uomini esiste una debolezza chiamata ambizione dalla quale è importante sapersi difendere il più possibile”. Pregate per me perché l’ambizione che mi è mancata non assuma le fattezze della presunzione e della ostentazione. Non trovo in me alcun merito (spero di non peccare di falsa modestia) e dovendo trovare un motivo di tale elezione trovo conforto nelle espressioni utilizzate da S. Leone Magno: “Egli, affinché io molto lo ami, mi ha perdonato molto: e per mostrare mirabile la sua grazia ha elargito i suoi doni a colui nel quale non ha trovato titoli di speciale merito”. Se proprio un merito devo trovarlo non lo trovo in me ma in tutti coloro che nel corso della mia vita sacerdotale mi hanno sostenuto con la costante preghiera, incoraggiato, perdonato,  soprattutto i membri della tre comunità parrocchiali che mi sono state affidate e a cui è stata affidata la cura e la crescita del mio ministero.

Continuate a pregare perché non cada su di me il rimprovero di S. Gregorio Magno il quale biasimava l’ignavia di alcuni che pur avendo assunto l’ufficio sacerdotale (in questo caso episcopale), non compiono le opere che l’ufficio comporta. Sempre il card. Martini riconosceva che la consacrazione episcopale è l’inizio di un importante cambiamento perché essere successore degli apostoli e portare la responsabilità di una chiesa locale (nel mio caso si tratta di una corresponsabilità) non è cosa da poco. In questi giorni tanti nel farmi gli auguri non hanno mancato di ricordarmi la gravità del compito che mi attende e le contrarietà che lo caratterizzano. Faccio ancora ricorso alla saggezza del compianto cardinale che con una frase stempera tutta la tensione: “I guai che mi immagino probabilmente non li avrò, mentre ne avrò di quelli che non riesco a immaginare. Tanto vale restare quieto e pacifico”.

Da oggi sono vescovo della Chiesa che amo, non solo di questa Chiesa locale ma della Chiesa universale, che è mia madre.  Io amo questa Chiesa che nel Concilio Vaticano II si è definita ancella dell’umanità. Amo la Chiesa che è sacramento universale di salvezza; amo la Chiesa che è chiamata a donare la vita e a ravvivare la speranza in coloro che l’hanno smarrita. Amo questa Chiesa che è per sua natura missionaria. Amo questa chiesa che vince la tentazione di curvarsi su se stessa, capace di guardare al futuro consapevole del ruolo che le spetta e che deve conservare con dignità. Amo questa Chiesa che si apre al mondo e che entra in dialogo con le diverse espressioni dell’umanità. Amo questa Chiesa che non vive nella paura ma che si apre con fiducia ai fratelli e si fa prossimo a tutti coloro che sono incappati nei briganti, che sa versare sulle ferite dell’umanità l’olio della consolazione e il vino della speranza.