Gesù vide seduto al banco delle imposte un uomo chiamato Matteo. Gli dice: «Seguimi!». E quello, alzatosi, si mise a seguirlo. (Mt 9,9).
Notizie storiche
Gesù vide seduto al banco delle imposte un uomo chiamato Matteo. Gli dice: «Seguimi!». E quello, alzatosi, si mise a seguirlo. (Mt 9,9).
Sant’Antonino, Abate – 14 Febbraio
Sant’Antonino abate è il santo patrono di Campagna nonché di Sorrento. Il culto di questo santo è talmente forte nelle famiglie di ogni ceto sociale tanto che ogni anno – il 14 febbraio – la ricorrenza diventa una vera e propria festa di popolo.
Sant’Antonino nacque a Campagna. Lasciò ben presto il suo paese per recarsi a Cassino dove divenne monaco benedettino. In quel tempo l’Italia era devastata dalle invasioni barbariche.
Anche il monastero di Montecassino fu saccheggiato dai longobardi ed i monaci dovettero fuggire, recandosi a Roma presso il papa Pelagio II. Sant’Antonino, invece, vagò per la Campania finché non approdò a Stabia, ossia l’attuale Castellammare. Qui conobbe san Catello che ne era vescovo diventandone amico. San Catello desiderava dedicarsi alla vita contemplativa e, quando decise di ritirarsi sul Monte Aureo, affidò a Sant’Antonino la diocesi di Stabia. Durante il periodo di reggenza della diocesi il richiamo alla vita monastica fu così forte che Antonino chiese a Catello di ritornare in sede.
Antonino a sua volta si ritirò sul Monte Aureo; visse in una grotta naturale in solitudine cibandosi di erbe. Fu infine raggiunto da san Catello che decise nuovamente di ritirarsi sul monte e di dedicarsi alle cure della diocesi sporadicamente. Un giorno ai due apparve l’arcangelo Michele il quale chiese che fosse costruita una chiesa in quel posto da dove si dominava il golfo e si ammirava il Vesuvio. Così i due santi cominciarono a costruire una chiesa in pietra e legno nel punto del Faito che ora si chiama Monte S. Angelo o Punta S. Michele.
Dapprima vi salirono pastori, poi agricoltori finché san Catello fu accusato di stregoneria da un cattivo prete di Stabia, tale Tibeio, e fu richiamato dal papa a Roma e tenuto prigioniero finché ad un nuovo papa apparve in sogno Sant’Antonino che gli intimò di liberare l’amico. San Catello ritornò a Stabia e si dedicò ad ampliare la chiesa sul monte che divenne meta di pellegrini. Fra tanti che si recavano sul monte vi erano moltissimi sorrentini che invitarono Antonino che già aveva fama di santo a stabilirsi a Sorrento. Fu accolto dall’abate Bonifacio nel monastero benedettino di S. Agrippino che si trovava dove sorge ora la basilica.
Alla morte di Bonifacio, Antonino divenne suo successore. Si racconta che un giorno un fanciullo che giocava sulla spiaggia di Sorrento fu inghiottito da una balena. La mamma disperata chiese aiuto a Sant’Antonino che si recò sulla spiaggia ed intimò ai pescatori di cercare il mostro marino e di condurlo in sua presenza. Quando ciò avvenne fu aperto il ventre del mostro e ne uscì sano e salvo il fanciullo. Quest’episodio costituisce uno dei miracoli più importanti compiuti in vita dal santo che diventò un riferimento per tutta la città di Sorrento. Dopo la sua morte avvenuta 13 secoli fa i sorrentini eressero la cripta e la basilica sul luogo della sua sepoltura, sul bastione della cinta muraria perché per suo volere fu sepolto né dentro, né fuori la città ma nelle mura della stessa.
Ammirando i dipinti della basilica si intuisce l’amore di Sorrento per il santo ed i miracoli compiuti: la vittoria navale contro i saraceni, nell’assedio del terribile generale Grillo, la preservazione dalla peste, la liberazione dal colera, la liberazione degli indemoniati.
Si racconta che quando Sorrento fu saccheggiata dai turchi e la statua trafugata, non avendo denaro a sufficienza per farne un’altra i sorrentini vi avevano rinunciato, ma ecco che avvenne il miracolo: sant’Antonino si presentò in carne ed ossa allo scultore al quale pagò direttamente la statua. Si festeggia il 14 febbraio.
San Donato, Vescovo e Martire – 7 Agosto
Donato nacque verso la fine del terzo secolo a Roma, secondo il Martirologio del secolo XI; ebbe ottimi genitori che gli imposero il nome Donato per mostrare la loro gratitudine al Signore di averlo avuto come dono della sua immensa paternità. Per prepararlo alla difesa della fede cristiana ed istruirlo nello studio, fu affidato da ragazzo al sacerdote Epigmenio. Intanto nel 303 l’imperatore Diocleziano iniziò la persecuzione contro i cristiani e tra le prime vittime furono proprio il maestro e i genitori di Donato, il quale lasciò Roma e si fermò ad Arezzo.
Nei pressi di questa città viveva un anacoreta di nome Ilarino, a cui il giovane Donato si rivolse per continuare gli studi ma soprattutto per vivere nella solitudine, nella contemplazione nella penitenza. Ma il vescovo di Arezzo, Satiro, chiamò Donato accanto a sé e lo ordinò diacono, esercitando per due anni questo ministero per accedere poi al sacerdozio, divenendo vero apostolo in mezzo ad una società in gran parte ancora pagana. La preghiera e la predicazione furono il pane con cui Donato nutriva la sua gente.
Alla morte del vescovo Satiro, la diocesi di Arezzo resta vacante e per acclamazione il popolo scelse Donato, nonostante la sua ritrosia, come Pastore e Maestro nella fede. Fu consacrato vescovo a Roma nel 346 dal Pontefice Giulio I, fortissimo assertore del Concilio di Nicea contro l’eresia ariana. Tutto il suo episcopato fu contrassegnato da preghiera, predicazione e operosa carità, a servizio dei poveri, tanto che il papa stesso definì Donato l’apostolo della Toscana. Donato subì il martirio per decapitazione il 7 agosto 362.
Il culto è ampiamente diffuso in tutta Italia ove si trovano molte chiese dedicate a lui e viene venerato particolarmente come protettore dei casi epilettici. Nel 1612 le reliquie di San Donato arrivarono in provincia di Salerno, per mezzo del vescovo Barzellino e nella comunità di Acerno si venera una reliquia del Capo di San Donato, come si rileva da documenti del secolo XVII esistenti in Arezzo.
La reliquia del Santo si conserva in un prezioso busto dorato esposto nella Chiesa parrocchiale di Santa Maria degli Angeli, mentre in processione viene portata l’immagine del Santo in busto argentato del XVIII secolo ed il 7 agosto di ogni anno, con la guida dell’Arcivescovo di Salerno, l’intero popolo acernese rende l’omaggio di fede e di devozione al suo Santo Patrono.
Secondo la loro Passio, le tre donne – mentre imperversava la persecuzione di Diocleziano – si rifugiarono presso Nola. La loro condotta di vita cristiana fecero sì che alcuni pagani le denunziassero a Leonzio, che decise di punirle con la morte, qualora non avessero sacrificato agli dèi. Condotte a Salerno, sede di Leonzio, dopo una lunga discussione tra lui e Archelaide e dopo che questa fu gettata in pasto ai leoni, che non la toccarono, la vergine fu flagellata e sottoposta ad altri supplizi: tutte e tre furono uccise di spada a un miglio da Nola (303).
Nella prima metà del X sec. – in seguito ad una rivelazione avuta da una religiosa benedettina del monastero di S. Giorgio di Salerno – le reliquie furono traslate da Nola a Salerno, nel ricordato monastero, dove tutt’ora sono conservate.
(S. A. Capone, I segni dell’Eterno nel tempo. Le reliquie di Beati e Santi custodite nell’Arcidiocesi di Salerno, I, NoiTre, Montecorvino Rovella 2020, 280-283)
San Felice – Presbitero
Il Kalendarium del Breviarium di Romualdo II Guarna – oggi custodito nel Museo Diocesano “San Matteo” di Salerno – al IX kal.mMartii (21 febbraio) commemora liturgicamente un Sancti Felicis presbyteri et martyris salernitani.
Delle reliquie di questo santo presbitero si persero le tracce fino a quando il 4 dicembre 1953 Mons. Demetrio Moscato, arcivescovo di Salerno (1945-1968) procedette alla ricognizione canonica dei santi martiri Gaio, Ante e Fortunato, inumati all’interno della cripta della basilica inferiore del Duomo di Salerno.
Sollevata la lastra di copertura del primigenio sepolcro – di 3 quintali e spessa 8 cm – fu rinvenuta un’iscrizione in maiuscole rotonde con alcune abbreviazioni: Hic recondita sunt Reliquia Sanctorum Martirum Fortunati, Gaii, Anthes et Felicis a Domino Alfano Archiepiscopo temporibus Domini Robberti eximii ducis Anno Dominicae Incarnationis MLXXXI M. MR.
Il loculo – profondo 56 cm, largo 71 cm e lungo 146 cm – era diviso in tre settori, contenti ciascuno ossa (dei SS. Martiri). Nel più grande (corrispondente al I settore) era collocata un’anfora in alabastro strigilato con coperchio conico (h 54 cm, diam. 108 cm), contenente anch’essa ossa umane (S. Felice presbitero salernitano).
Il 7 maggio 1954, in occasione del millenario della traslazione delle reliquie di S. Matteo a Salerno, le SS. Reliquie vennero ricollocate nella cripta del Duomo: le ossa, contenute nei tre settori e collocate prima in tre cassette provvisorie, vennero trasferite in un nuovo sarcofago di marmo in tre scomparti ovali, contraddistinti dai numeri romani “I, II, III”.
Nella nuova collocazione di aggiunse un quarto scomparto contrassegnato dal numero romano “IV”. Le ossa che erano contenute nell’anfora vennero nuovamente sigillate in essa. Sia il sarcofago che l’anfora vennero calati all’interno del loculo a pavimento, chiuso da una grata.
RICOGNIZIONE CANONICA
L’ 11 dicembre 2021 è stata condotta una nuova ricognizione canonica sulle reliquie dei santi martiri salernitani, avvalendosi della consulenza dei Periti medici nelle persone della dott.ssa Alessandra Cinti e del dott. Vincenzo Agostini.
Così il Verbale: «(…) Alle ore 9:45 si iniziano le operazioni di ricognizione canonica dei Ss. Mm. Fortunato, Gaio, Ante e San Felice presbitero e martire salernitano. Si dà lettura del Verbale della invenzione e della nuova sistemazione delle reliquie dei santi martiri Fortunato, Gaio, Ante e San Felice del 4 dicembre del 1953 (p. 1-3) e dei verbali circa la traslazione temporanea in occasione della ricognizione (n. 105 del 29 marzo e n. 110 del 20 aprile). Si procede all’apertura della cassetta contenete il materiale osseo denominato “San Felice presb. mart. sal.” rimuovendo gli integri sigilli di piombo dell’Arcivescovo Mons. Bellandi giusta autentica riproposta in allegato. Viene unita anche una reliquia insigne di San Felice presbitero e martire salernitano, custodita all’interno di una teca ovale in ferro. Viene estratto e collocato il materiale osseo dalla cassetta e la Dott.ssa Cinti inizia la ricomposizione anatomica dei frammenti (sotto).
Si evidenzia la possibilità di attribuire i frammenti ossei ad un individuo adulto, probabilmente di sesso maschile (età superiore a 45 anni). Dall’analisi delle superfici articolari delle ossa lunghe si osservano segni di diffusa artropatia (artrosi).
Si continua la lettura del Verbale della invenzione e della nuova sistemazione delle reliquie dei santi martiri Fortunato, Gaio, Ante e San Felice del 7 maggio 1954, limitatamente alla parte descrittiva dell’anfora contenete il materiale osseo di San Felice presbitero e martire salernitano (p. 5). Si concorda con le conclusioni avanzate all’epoca da parte del Perito medico dott. Antonio Cioffi (…). Si procede all’inventario degli elementi ossei (…)».
ANALISI AL 14C
Nella ricognizione canonica di S. Felice presbitero (e martire) salernitano dell’11 dicembre 2021, è stato campionato un frammento osseo (S.F.M. 1) di alcuni centimetri, per la datazione con il metodo del radiocarbonio mediante la tecnica della spettrometria di massa ad alta risoluzione (AMS). Nel gennaio 2022 l’Ufficio Custodia delle Reliquie dell’Arcidiocesi di Salerno-Campagna-Acerno ha trasmesso il campione al Centro di Datazione e Diagnostica (CEDAD) dell’Università del Salento, acquisito dall’Istituto col n° LTL22000. Il 9 maggio 2022 il CEDAD ha trasmesso i risultati dell’indagine, a firma del Direttore prof. Lucio Calcagnile.
Da qui la relazione:
«I macrocontaminanti presenti nei campioni sono stati individuati mediante osservazione al microscopio ottico e rimossi meccanicamente. Il trattamento chimico di rimozione delle contaminazioni dal campione è stato effettuato sottoponendo il materiale selezionato ad attacchi chimici alternati acido-alcalino-acido. Il materiale estratto è stato successivamente convertito in anidride carbonica mediante combustione a 900°C in ambiente ossidante, e quindi in grafite mediante riduzione. Si è utilizzato H2 come elemento riducente e polvere di ferro come catalizzatore. La quantità di grafite estratta dai campioni è risultata sufficiente per una accurata determinazione sperimentale dell’età (…).
La datazione al radiocarbonio per i campioni è stata quindi calibrata in età di calendario utilizzando il software OxCal Ver. 3.10 basato sui dati atmosferici INTCAL20».
Il risultato della calibrazione è stato il seguente:
Come si può osservare dal grafico, il campione di osso attribuito a S. Felice presbitero (e tradizionalmente considerato martire) salernitano è riferibile, con una probabilità del 79.5%, al VII secolo (601-704 AD). L’esito delle analisi al 14C permette di considerare l’individuo identificato dall’Autentica di Alfano I come “Felice presbitero e martire salernitano” come antropologicamente distinto sia dal “Felice presbitero e martire nolano” sia dal “Felice vescovo di Nola”.
L’autenticità delle reliquie trova sostegno anche nel fatto che queste ammontano a circa il 60% delle ossa di uno scheletro completo. Il dato indica che queste, in un tempo imprecisabile, siano state spartite tra Salerno e un’altra entità ecclesiastica al momento ancora sconosciuta, in quanto ritenute di particolare importanza e valore.
L’ipotesi che sembra più verosimile è considerare Felice come un martire “atipico”: un individuo di riconosciute elevate virtù, deceduto in circostanze e cause di cui si sarebbe persa nozione nel corso del tempo, tenendo per certo soltanto che la morte fosse stata causata genericamente in odium fidei. Casi analoghi sono rappresentati anche dai santi atellani Elpidio, Canio e Elpicio, indicati in un’altra Autentica alfaniana come martiri e come tali venerati. Considerato il culto antichissimo del santo, ma in assenza di notizie precedenti, la qualifica martiriale potrebbe essere stata associata nella Passio – redatta non prima dell’XI sec. – a quella dei santi martiri Gaio, Ante e Fortunato.
Meno solida l’ipotesi che il Felice salernitano vada considerato come “corpo santo”, un individuo sconosciuto ai cui resti, rinvenuti nell’altomedioevo, sarebbe stato assegnato, per motivi di prestigio della Chiesa locale, il titolo di martire.
© Sergio Antonio Capone
Per approfondimenti:
– S. A. Capone, S. Felice presbitero (e martire) salernitano / 1, in Q.S.C.R.A.S. (28) 2023, 3-6.
– Id., S. Felice presbitero (e martire) salernitano / 2, in Q.S.C.R.A.S. (29) 2023, 3-4.
Santi Fortunato, Gaio e Ante martiri
Il Martirologio Romano ricorda al 28 agosto il martirio di Gaio, Ante e Fortunato, collocandolo in Salerno, durante la persecuzione di Diocleziano e sotto il proconsole Leonzio. Non vi sono altre notizie documentate del martirio.
Nella prima metà del IX sec. esisteva una chiesa fuori le mura, presso il fiume Irno, luogo del loro martirio. In essa – ancora esistente nel XVI sec. – furono conservate le reliquie dei tre martiri, fino a quando le frequenti scorrerie dei Saraceni non indussero il vescovo Bernardo (849 – 860 c.a.) a trasferirle in città, nella chiesa di S. Giovanni Battista. Infatti, secondo quanto riferisce il Chronicon salernitanum, il vescovo raccolse (undique adunavit) nelle chiese dentro le mura di Salerno multa corpora Sanctorum, prima disseminate nelle zone suburbane (extra moenia) della città. Demolita la chiesa presso il fiume Irno, nel 1081 l’arcivescovo Alfano I collocò i corpi dei martiri nella cripta del Duomo.
Il 4 dicembre 1953 Mons. Demetrio Moscato procedette alla ricognizione canonica dei santi martiri. Sollevata la lastra di copertura del primigenio sepolcro – di 3 quintali e spessa 8 cm – fu trovata un’iscrizione in maiuscole rotonde con alcune abbreviazioni: Hic recondita sunt Reliquia Sanctorum Martirum Fortunati, Gaii, Anthes et Felicis a Domino Alfano Archiepiscopo temporibus Domini Robberti eximii ducis Anno Dominicae Incarnationis MLXXXI M. MR. Il loculo – profondo 56 cm, largo 71 cm e lungo 146 cm – era diviso in tre settori, contenti ciascuno ossa (dei SS. Martiri). Il 7 maggio 1954, in occasione del millenario della traslazione delle reliquie di S. Matteo a Salerno, le reliquie vennero ricollocate nella cripta del Duomo: le ossa, contenute nei tre settori e collocate prima in tre cassette provvisorie, vennero trasferite in un nuovo sarcofago di marmo in tre scomparti ovali, contraddistinti dai numeri romani “I, II, III”. Il sarcofago venne calato all’interno del loculo a pavimento, di fronte l’altare dedicato ai santi salernitani, chiuso da una grata.
RICOGNIZIONE CANONICA
Il giorno 11 dicembre 2021 è stata condotta una nuova ricognizione canonica sulle reliquie dei santi martiri salernitani, avvalendosi della consulenza dei Periti medici nelle persone della dott.ssa Alessandra Cinti e del dott. Vincenzo Agostini.
Così il Verbale: «(…) alle ore 9:45 si iniziano le operazioni di ricognizione canonica dei Ss. Mm. Fortunato, Gaio, Ante e San Felice presbitero e martire salernitano. Si dà lettura del Verbale della invenzione e della nuova sistemazione delle reliquie dei santi martiri Fortunato, Gaio, Ante e San Felice del 4 dicembre del 1953 (p. 1-3) e dei verbali circa la traslazione temporanea in occasione della ricognizione (n. 105 del 29 marzo e n. 110 del 20 aprile). Si continua la lettura del Verbale della invenzione e della nuova sistemazione delle reliquie dei santi martiri Fortunato, Gaio, Ante e San Felice del 7 maggio 1954, limitatamente alla parte descrittiva dell’anfora contenete il materiale osseo di San Felice presbitero e martire salernitano (p. 5). Si concorda con le conclusioni avanzate all’epoca da parte del Perito medico dott. Antonio Cioffi. Successivamente si passa all’estrazione dei frammenti ossei dalle cassettine contrassegnate dalla sigla Gaio-Ante-Fortunato n. I, n. II e n. III. Infine, si dispone il contenuto della cassettina di materiale osseo contraddistinta dalla dicitura “ex cin. permixtis Ss. Gaii, Fortunati et Anthes”. Da quest’ultima non si rilevano elementi ossei attribuibili a nessuno degli altri tre individui. Si procede all’inventario degli elementi ossei (…). Dall’analisi dei frammenti ossei si definisce quanto segue:
[G.A.F. I Altri individui: sono presenti frammenti di ossa riferibili ad almeno due soggetti subadulti e un adulto].
[G.A.F. III Altri individui: ci sono 29 frammenti riferibili ad almeno quattro individui di cui due adulti e due subadulti].
Si procede alla ricollocazione per distretto scheletrico dei frammenti in buste distinte:
© sac. Sergio Antonio Capone
Per approfondimenti:
– S. A. Capone, I segni dell’Eterno nel tempo. Le reliquie di Beati e Santi custodite nell’Arcidiocesi di Salerno, I, NoiTre, Montecorvino Rovella 2020, 292-294;
– S. A. Capone, Ss. Martiri salernitani Gaio, Ante e Fortunato, in Q.S.C.R.A.S. (25) 2023, 3-10.
San Gregorio VII
Gregorio VII è uno dei più grandi papi della storia. Secondo la tradizione egli nacque a Sovana presso Grosseto, verso il 1020, dal fabbro Bonizone il quale al fonte battesimale volle che fosse chiamato Ildebrando.
Ricevette la prima formazione a Roma dallo zio, abate di S. Maria in Aventino. Fu quindi educato nel palazzo lateranense da due celebri precettori: Lorenzo, ex-arci vescovo di Amalfi, e l’arciprete Giovanni Graziano. Costui fu eletto dai romani papa col nome di Gregorio VI dopo che aveva indotto l’indegno adolescente Benedetto IX, suo figlioccio, ad abdicare, versandogli una somma di denaro. Nel sinodo di Sutri (1046), tenuto alla presenza di Enrico III, imperatore di Germania, Gregorio depose spontaneamente la sua dignità protestando di aver agito in buona fede, non per simonia.
Ildebrando, riluttante, lo seguì in esilio a Colonia, in qualità di suo cappellano. In quel tempo vestì l’abito benedettino. Quando però Bruno di Toul fu eletto papa, nella dieta di Worms, col nome di Leone IX, il giovane monaco fu invitato a ritornare a Roma suo malgrado. Per trent’anni Ildebrando fiancheggerà come consigliere, teologo, canonista, diplomatico e legato, l’opera di riforma di cinque pontefici, impegnati a combattere il concubinato del clero e la simonia. Leone IX lo ordinò suddiacono e lo fece priore ed economo del monastero di San Paolo fuori le mura perché riformasse la disciplina monastica e restaurasse la basilica. Stefano IX lo ordinò diacono e lo costituì arcidiacono della Chiesa romana, Alessandro II lo creò cardinale e cancelliere della medesima. Quando costui morì, tutto il popolo acclamò Ildebrando papa appena terminarono i funerali nella basilica di San Giovanni in Laterano. L’elezione fu fatta subito dopo dai cardinali nella chiesa di San Pietro in Vincoli. L’austero monaco si chiamò Gregorio. Aveva compiuto cinquant’anni, era pallido e piccolissimo di statura. Si fece ordinare prete, vescovo e quindi intronizzare con il beneplacito di Enrico IV il 30-6-1073.
Conscio della somma potestà che gli derivava dall’essere il successore di S. Pietro, si pose subito ad attuare il programma di riforma già vigorosamente iniziato dai suoi predecessori con l’aiuto di due intrepidi e focosi monaci: Umberto da Selva Candida (+1061) e S. Pier Damiani (+1072). Vera tempra di lottatore, estremamente volitivo, perspicace e di carattere impetuoso – non per nulla il Damiani lo aveva chiamato “santo satana” – Gregorio VII era l’uomo più indicato per rivendicare alla Chiesa le sue libertà, e far trionfare la giustizia e la pace nella sottomissione al Vicario di Cristo delle potenze secolari in tutto ciò che riguardava la salvezza del mondo cristiano.
Lo stesso anno in cui fu eletto papa, Enrico IV, intelligente ma superbo, falso e vizioso, nel tentativo di restaurare la sua autorità all’interno della Germania, aveva dichiarato guerra alla Sassonia, il più potente feudo dell’impero, ed era stato sconfitto e umiliato. Si rivolse allora al papa per averne l’appoggio, mostrandosi favorevole ai piani di riforma e promettendo di emendarsi da traffici simoniaci. Confidando nell’indispensabile unione tra il sacerdozio e l’autorità civile per il risanamento della società, Gregorio VII, nel sinodo quaresimale del 1074, rinnovò i decreti di scomunica contro la simonia e il concubinato del clero, omessi dai suoi predecessori, proibì l’esercizio delle funzioni religiose ai preti sposati e incitò il popolo a tenersene lontano. Nonostante le agitazioni e le ribellioni suscitate, il papa sostenne i suoi principi che davano esecuzione ad una antica legge ecclesiastica, convinto che lo stato matrimoniale fosse inconciliabile col sacerdozio.
Tuttavia, le cause principali degli scandali della chiesa erano l’eccessiva implicazione del clero negli interessi terreni, e il dominio dei laici negli affari ecclesiastici. Per tagliare i mali alla radice, nel sinodo del 1075 l’intrepido pontefice proibì anche ogni conferimento di uffici ecclesiastici da parte di laici e, in particolare, l’investitura dei vescovi per mano del re di Germania mediante la consegna simbolica del pastorale e dell’anello.
Contro simile decreto, sovvertitore della secolare consuetudine e della potenza imperiale, insorsero i signori feudali. Enrico IV scese decisamente in lotta aperta . Inebriato della vittoria conseguita sui Sassoni lo stesso anno, riprese i rapporti con i consiglieri scomunicati e nominò i titolari di parecchie diocesi, tra cui quella di Milano, che non era neppure vacante. Alla sua corte accolse persino un Cencio, capo dei malcontenti di Roma, il quale era riuscito a catturare il papa la notte di Natale mentre celebrava la Messa e rinchiuderlo grondante sangue in una torre. Il papa fece allo sconsiderato imperatore nuove rimostranze, gli rimproverò l’intrusione a Milano di Tedaldo, antiriformista, si dichiarò pronto ad un accordo, ma oralmente lo fece minacciare di scomunica e di deposizione qualora si fosse ostinato nella disubbidienza. Per tutta risposta Enrico IV convocò una dieta a Worms, nel gennaio del 1076, in cui ventisei vescovi condannarono e deposero Gregorio VII. Il re stesso, nella sua veste di patrizio romano, diresse a Ildebrando “falso monaco e non più papa” una lettera per ordinargli di scendere dalla cattedra “usurpata”. Un mese dopo il papa lanciò la scomunica contro Enrico, gl’interdisse il governo della Germania e dell’Italia e sciolse i sudditi dal giuramento di fedeltà.
L’Europa rimase sbalordita dì fronte a quella punizione fino allora inaudita. Attorno all’imperatore si fece il vuoto. I Sassoni si risollevarono e i principi nella dieta di Tribur, presso Magonza, decisero di abbandonare definitivamente Enrico se fosse rimasto nella scomunica per più di un anno. Una dieta da tenersi ad Augusta il 2-2-1077 avrebbe deciso in proposito alla presenza del papa, invitato a intervenirvi in funzione di arbitro. Enrico comprese che la sua situazione era drammatica. Piuttosto di umiliarsi dinanzi ai propri vassalli, preferì scendere con poca scorta in Italia, attraverso il Moncenisio, per umiliarsi dinanzi al papa. Gregorio VII, già in viaggio verso Augusta, alla notizia del suo arrivo si era chiuso nella rocca di Canossa (Emilia) della marchesa Matilde, seguace fedele e incondizionata del papato. Enrico si presentò per tre giorni successivi alle porte del castello “scalzo e vestito di saio come un penitente” (Reg. 4, 12) sollecitando l’ammissione e implorante l’assoluzione dalla scomunica. Dopo prolungate trattative, per i buoni uffici della suocera Adelaide di Susa, della cugina Matilde di Canossa e del padrino S. Ugo di Cluny, al quarto giorno ottenne di essere assolto e comunicato dal papa. Enrico riusciva così a spezzare il cerchio dei suoi avversari, mentre il papa, in quell’occasione più sacerdote che statista, si lasciava sfuggire di mano importanti vantaggi politici.
L’atto generoso di Gregorio non aveva soddisfatto appieno Enrico il quale avrebbe voluto, con l’assoluzione, anche la restituzione del trono, e aveva intiepidito i principi germanici i quali dessero nuovo re Rodolfo di Svezia, ambizioso cognato di Enrico. Nella guerra civile che ne seguì il papa tentò di porsi arbitro tra i due contendenti, ma Enrico, superiore di forze, con la minaccia di far eleggere un antipapa, chiese il riconoscimento per sé e la scomunica per suo cognato. Gregorio, invece, nel sinodo quaresimale del 1080, rinnovò la scomunica e la deposizione di Enrico, confermò Rodolfo e rinnovò il decreto dell’investitura con l’aggravante della scomunica. Nel sinodo tenuto a Bressanone poco dopo, Enrico fece di nuovo dichiarare dai vescovi Gregorio VII deposto. Al suo posto fu eletto Viberto, arcivescovo di Ravenna, con il nome di Clemente III.
Dopo la morte di Rodolfo in battaglia, Enrico sì trasferì in Italia con il suo esercito. Solo dopo quattro anni riuscì a entrare in Roma e occuparla (1084), fatta eccezione di Castel S. Angelo, in cui il papa ancora resisteva.
Tredici cardinali passarono dalla parte di Clemente il quale, a Pasqua, incontrò Enrico imperatore. Gregorio sarebbe caduto in mano del suo avversario se, al suo grido di aiuto, non fosse giunto Roberto il Guiscardo, vassallo della Chiesa, che costrinse i tedeschi alla ritirata. Ma il saccheggio e l’atroce devastazione compiuti dalle sue soldatesche mercenarie provocarono tale inasprimento dei cittadini contro Gregorio, che gli resero impossibile la permanenza in città. Si ritirò quindi a Salerno, capitale dei normanni, dove morì il 25-5-1085 esclamando con il salmista: “Ho amato la giustizia e odiato l’iniquità, perciò muoio in esilio”. (SI. 44, 8). Fu sepolto nel duomo. Non fu canonizzato formalmente, però Benedetto XIII ne estese la memoria a tutta la Chiesa nel 1728.
Con la sua morte sembrava sancita la sconfitta del papato per sempre. Era vero invece il contrario. I successori di Gregorio VII raccoglieranno il frutto del suo apparente insuccesso: il consolidamento dell’autorità giuridica, morale e politica della Chiesa che avrà il suo apogeo con Innocenzo III. Neppure egli era conscio del grande bene che operava per la santità e l’unione della Chiesa. Alla fine della sua esistenza terrena scriveva scoraggiato: “Da molto tempo chiedo all’onnipotente Signore di togliermi da questa vita o di rendermi utile alla nostra santa Madre Chiesa, e tuttavia né Egli mi ha tolto dalle mie afflizioni, né mi ha permesso di rendere alla Chiesa i servizi che vorrei” (Reg. 2, 49).
Nonostante che l’idea dominante di questo pontefice, quale appare dal tanto discusso documento detto Dictatus papae, fosse quella della supremazia del papato sull’impero, tuttavia non si può mettere in dubbio la rettitudine del suo operato in difesa dei diritti della Chiesa. Nel 1076 scrisse infatti ai principi e ai vescovi della Germania: “In questi giorni di pericolo, in cui l’anticristo si agita in tutte le sue membra, si troverebbe invano un uomo che preferisca sinceramente l’interesse di Dio ai suoi propri comodi… Voi mi siete testimoni che nessuna idea di secolare potenza mi ha spinto contro i principi cattivi e i sacerdoti empi, ma la comprensione del mio dovere e della missione della Sede Apostolica. Meglio per noi subire la morte da parte dei tiranni che, col nostro silenzio, renderci complici dell’empietà”.
Questo “acerrimo difensore della Chiesa” fu pure il primo a concepire l’idea di una crociata. Egli progettò nel 1074 di recarsi personalmente alla testa di un grande esercito in Oriente, per liberare il Santo Sepolcro caduto nel 1070 in mano ai Turchi, e rinnovare l’unione con la Chiesa greca.
Prima della sua elevazione al pontificato romano, egli aveva favorito l’occupazione dell’Inghilterra nel 1066 da parte di Guglielmo I, duca di Normandia. In quella spedizione egli aveva visto una crociata e nel suo capo un campione della Chiesa contro la simonia. E noto pure quanto si sia adoperato per l’estinzione dell’eresia di Berengario, che insegnava a Tours, il quale sosteneva che l’Eucarestia è soltanto segno o simbolo del corpo di Cristo. Il Concilio tenuto nel 1054 in quella città sotto la presidenza del legato pontificio Ildebrando, si era accontentato della sua dichiarazione che il pane e il vino sull’altare dopo la consacrazione sono corpo e sangue di Cristo. Essendo in seguito ricaduto nel medesimo errore, Gregorio VII lo fece venire a Roma e nel sinodo quaresimale del 1079 l’obbligò ad accettare la dottrina ecclesiastica della “transostanziazione”.
Autore: Guido Pettinati
Le ricognizioni canoniche delle reliquie di San Gregorio VII.pdf
Nato a Salerno nel 930 dalla nobile famiglia dei Pappacarbone, servì per lungo tempo Guaimaro, principe della sua città. Settantenne, nel 1002, era a capo di una legazione diretta in Francia al re Enrico II, per ottenerne la protezione sul suo signore e sul suo principato. Essendosi ammalato gravemente prima di valicare le Alpi, chiese ospitalità al monastero di S. Michele della Chiusa e, mentre i suoi compagni proseguirono il loro cammino, fece voto di farsi monaco se fosse guarito. Infatti, ristabilitosi, lasciò il mondo per rivestire l’abito benedettino, e seguì a Cluny s. Odilone incontrato nel convento della Chiusa.
Alcuni anni dopo, il principe di Salerno chiese al grande abate di Cluny il suo antico ministro per impiegarlo nella riforma dei monasteri del salernitano, ma, dopo un tentativo poco fruttuoso, Alferio si ritirò con due compagni nella Cavea metiliana o “valle Metilia”, presso Salerno (nell’attuale Cava dei Tirreni), per menarvi vita eremitica in preghiera e penitenza. In seguito vi costituì, dedicandolo alla S.ma Trinità, un monastero per dodici discepoli, destinato a diventare uno dei principali centri della riforma monastica. La comunità fu organizzata sul tipo di quella di Cluny e secondo il suo spirito. Fra i discepoli del santo dobbiamo ricordare il mercante di Lucca s. Leone e il monaco Desiderio, che più tardi salirà al trono pontificio col nome di Vittore III e tesserà l’elogio di Alferio nel terzo libro dei suoi Dialoghi. Il monastero godette della particolare benevolenza di Guaimaro, il quale con decreto del 1025 ne riconosceva l’esistenza, concedendo un largo tratto di terra intorno e piena libertà di governo, compresa quella di eleggere l’abate in seno alla comunità senza alcuna ingerenza di secolari.
Alferio morì nel 1050, il 12 aprile, giorno in cui è festeggiato, dopo aver designato Leone di Lucca suo successore e aver revocato la norma stabilita di non accogliere nel suo monastero più di dodici monaci.
I suoi undici immediati successori sono venerati con culto pubblico riconosciuto dalla Chiesa; come santi: Leone, Pietro e Constabile, insieme col santo fondatore Alferio, con decreto di Leone XIII del 1893 ; come beati: Simeone, Falcone, Marino, Benincasa, Pietro II, Balsamo, Leonardo e Leone II, con decreto di Pio XI del 1927.
Nacque a Salerno nel 1043. Congiunto di sangue con i principi longobardi di Salerno, fu anche nipote di S. Alferio, primo abate e fondatore dell’Abbazia della Trinità di Cava dei Tirreni (fondata nel 1028). Entrato giovane fra i benedettini di Cava, distinguendosi per l’ardore religioso e desiderio di mortificazione, fece grandi progressi spirituali sotto la guida dell’abate s. Leone I (1050-79) primo successore di suo zio s. Alferio Pappacarbone. Fu amante della solitudine e per questo si ritirò a fare l’eremita sul vicino monte S. Elia. Poi partì per Cluny, desideroso di perfezionare la sua formazione alla scuola di S. Ugo abate. Qui rimase per otto anni temprando il suo carattere all’austerità della vita monastica. Verso la fine del 1067 tornò al monastero di Cava e fu nominato dal principe di Salerno Gisulfo II, vescovo di Policastro, ma dopo pochi anni di intensa opera pastorale, rinunziò alla carica riprendendo la sua vita ascetica a Cava, dove s. Leone I, molto avanti negli anni, lo associò alla guida dell’abbazia.Pietro volle applicare rigidamente le norme di Cluny che aveva appreso in Francia, provocando una vivace reazione da parte dei monaci, che riuscirono a convincere delle loro ragioni anche il vecchio abate Leone. Pietro allora si allontanò dalla badia, ritirandosi nel monastero di S. Arcangelo del Cilento, dove restaurò la vita monastica secondo il rigore cluniacense.
Dopo qualche tempo ritornò al governo di Cava, richiamato dai monaci che si erano ricreduti. Il 12 luglio 1079 morì l’abate s. Leone I e Pietro subentrò in pieno nella carica di abate di Cava e delle sue numerose dipendenze, governando con fermezza e sapienza.
I principi di Salerno, furono molto generosi con lui concedendo feudi e beni, affidandogli più di 350 monasteri latini e greci nel Cilento, in Lucania, in Puglia e in Calabria. Sotto il suo governo, l’abbazia della Trinità di Cava divenne il centro di una potente congregazione monastica con svariate centinaia di chiese e monasteri dipendenti, ormai sparsi in tutta l’Italia Meridionale.
Furono più di 3.000 i monaci cui Pietro diede l’abito; l’abbazia come tutte le dipendenze, godevano di privilegi ed esenzioni concessi con l’indipendenza assoluta dai vescovi, mentre i principi salernitani ed i signori Normanni, l’avevano dotata di poteri feudali; per controllare meglio il buon andamento delle dipendenze, introdusse la visita periodica dei monasteri, che poi i suoi successori tramutarono in Capitoli.
Fu grande nell’esercizio delle virtù monastiche specialmente nell’orazione e la penitenza, praticò con insistenza la dolcezza e l’umiltà, soprattutto con i monaci e nella correzione dei sudditi, di cui ricevé sempre stima ed affetto.
Si racconta di lui una ricca sequenza di avvenimenti miracolosi, che diffusero la sua fama in tutta l’Italia Meridionale. Nei primi giorni di settembre del 1092, il papa Urbano II, che l’aveva conosciuto a Cluny, arrivò a Cava dei Tirreni con un seguito di cardinali, vescovi, principi e baroni, compreso il duca Ruggero, provenienti da ogni regione del Meridione; il papa consacrò la nuova chiesa abbaziale, ampliata e trasformata in basilica a più navate, concedendo all’abate le insegne vescovili.
Resse il Cenobio fino a che passò al Monastero di Perdifumo nel Cilento dove morí il 4 marzo 1123 all’età di 80 anni, carico di meriti e di virtù e fu sepolto nella stessa cripta dei suoi predecessori.
Se s. Alferio è stato il fondatore dell’abbazia di Cava, s. Pietro I è riconosciuto come il vero costruttore, cui si devono l’organizzazione della vita monastica e il meraviglioso impulso dato alla Congregazione Cavense.
A poca distanza dalla morte fu elevato agli onori degli altari e proclamato protettore della Diocesi di Policastro. Nel 1874 Mons. Giuseppe M. Cione, Vescovo di Policastro, curò la traslazione delle reliquie del Santo nella cattedrale di S. Maria Assunta.
Dal 1987 è compatrono della nuova sede della Diocesi di Teggiano-Policastro. La sua festa cade nella seconda Domenica dopo Pasqua.
S. Pietro da Salerno
Vescovo, Salerno 1030 ca – Anagni 1105
Consacrato nel 1062 da Papa Alessandro II era nato una trentina di anni prima dalla famiglia dei Principi di Salerno ed era detto anche Pietro de Principibus. La consacrazione a Vescovo di Anagni venne consigliata dal monaco Ildebrando de Soana futuro Papa Gregorio VII. San Pietro da Salerno ebbe un ruolo di rilievo nell’organizzazione della Prima Crociata e mantenne fecondi rapporti con la sua terra d’origine.
Beato Giovanni Guarna
Domenicano, Salerno 1190 – Firenze 1242
Giovanni Guarna, nato a Salerno nel 1190, di nobile stirpe normanna, ricevette l’Abito dei Predicatori dalle mani del santo Padre Domenico che ebbe, nel 1219, anche come guida e maestro. Fu suo gran merito far tesoro di sì preziosi ammaestramenti, tanto che si poteva affermare che in lui era passato lo spirito di Domenico. Il Padre lo mandò insieme a dodici compagni a propagare l’Ordine in Toscana, e sebbene Giovanni fosse il più giovane, fu messo alla testa di tutti, a dimostrazione di quanta stima avesse per lui Domenico. Il drappello si fermò a Firenze il 20 novembre 1221 presso Santa Maria Novella. In breve Giovanni fu padrone dei cuori. Il popolo accorreva in gran numero ad ascoltarlo. I peccatori si convertivano, e in tutti ci fu un risveglio e un rifiorire della vita cristiana, tanto che i cittadini vollero fra loro nuovi Predicatori. Per incarico di Papa Gregorio IX riformò il monastero benedettino di Sant’Antimo. Verso il 1230 fondò a San Jacopo di Ripoli la prima comunità femminile Domenicana in Toscana. Quando Giovanni ebbe notizia dell’ultima malattia del fondatore si affrettò ad accorrere a Bologna, potendo così ricevere l’ultima sua benedizione. Ritornato a Firenze, riprese con ardore la sacra predicazione. Combatté strenuamente gli eretici paterini che infestavano la città e, dopo aver attirato all’Ordine molte e scelte vocazioni, nel 1242 si addormentò nel Signore. Papa Pio VI il 2 aprile 1783 ha confermato il culto.
Matteo Ripa nacque ad Eboli il 29 marzo 1682, quando la ridente cittadina di oggi, era effettivamente in quei tempi, un povero borgo rurale, che non aveva ancora scoperta la possibilità di un’attività turistica sui lidi marini del suo territorio, oggi in piena espansione.I suoi genitori erano comunque di buone condizioni economiche, il padre Gianfilippo dei baroni di Planchitella era un medico, forse l’unico del paese. Verso i quindici anni si trasferì a Napoli, la capitale del Regno e centro culturale di tutto il Meridione, per completare i suoi studi; dopo qualche sbandamento giovanile si affidò alla guida spirituale del famoso padre Antonio de Torres, esimio membro della Congregazione dei Pii Operai, iscrivendosi come chierico alla Congregazione sacerdotale di S. Maria della Purità, fondata e diretta dallo stesso Antonio Torres.Venne ordinato sacerdote a Salerno il 28 maggio 1705, padre Torres lo mandò a Roma per formare insieme al sac. Gennaro Amodei, il primo nucleo del Collegio di Propaganda Fide, voluto da Clemente XI per la formazione dei missionari; rimase a Roma per oltre due anni, legandosi in sincera amicizia col Pio Operaio Tommaso Falcoia, che divenne suo direttore spirituale.
In quel tempo la Chiesa missionaria viveva un periodo assai critico, con la dirompente questione dei riti cinesi, che vide in netta contrapposizione i gesuiti, che difendevano i riti tradizionali cinesi applicati alla liturgia cattolica e i missionari di Propaganda Fide che seguendo la Costituzione apostolica di papa Clemente XI del 1717, li condannavano.
Per calmare la situazione fu mandato in Cina mons. C. Mailard de Tournon, come Legato Apostolico, lo stesso Tournon fu creato poi cardinale dal papa e padre Ripa insieme ad altri quattro missionari fu incaricato di portargli la berretta cardinalizia in Cina.
Si imbarcò a Londra il 6 aprile 1708 e dopo un lungo e sofferto viaggio con tappe avventurose in Malacca, Manila, Capo di Buona Speranza, Bellassor, sbarcò a Macao il 2 gennaio 1710; qui ebbero la sorpresa di trovare il Legato pontificio prigioniero dei portoghesi, dopo aver subito l’allontanamento da Pechino da parte dell’imperatore Kangshi, a causa delle discordanze sulla questione dei riti.
Morto il neo cardinale di crepacuore, Matteo Ripa riuscì a farsi accettare a corte, per il suo talento d’artista, come incisore e pittore, i suoi paesaggi piacevano particolarmente.
Prese il nome cinese di Ma Kuo-hsien, inserendosi nel loro mondo, adottando il modo di vestire e apprendendone la lingua. Oltre che incisore e pittore, fu un discreto meccanico artistico, fornendo alla corte imperiale dei perfetti orologi. Nel 1719 aprì una scuola per catecumeni e collaboratori cristiani cinesi.
Suo malgrado fu coinvolto nella diatriba e controversia dei riti cinesi e toccò a lui pronunziare per conto del vescovo di Pechino, la sentenza a favore di Propaganda Fide, per questo fu in polemica con il gesuita Kiliano Stumpf, il quale lo attaccò con uno scritto stampato anonimo a Pechino nel 1718.
La sua partecipazione attiva in questa controversia gli meritò la nomina di protonotario apostolico con il beneficio della badia di S. Lorenzo in Arena (Mileto). Ma dopo la morte dell’imperatore, avvenuta il 20 dicembre 1722, fu costretto a tornare in Europa; imbarcatosi a Canton il 24 gennaio 1724, insieme a quattro giovani allievi cinesi e con il maestro Gioacchino Wang, ricevé nel porto di Londra speciali onori dal Re Giorgio I, proseguendo poi per Napoli, dove giunse il 20 novembre 1724.
Qui acquistò un edificio sulla collina della Sanità, con annessa chiesa per il suo Seminario “in servizio delle Missioni degli Infedeli” prosieguo dell’Istituto già iniziato qualche anno prima in Cina. Per otto anni tenne aperto in prova l’Istituto, poi con l’approvazione del papa (1725) e successivamente dell’Autorità civile, lo inaugurò solennemente il 25 luglio 1732 con il titolo di “Congregazione Missionaria della S. Famiglia di Gesù” detta pure “Collegio dei Cinesi”, con dimora definitiva a Napoli nella Villa Pirozzi, acquistata dagli Olivetani sull’altura della Sanità.
L’Istituzione comprendeva tre sezioni di iscritti: alunni cinesi e indiani, sacerdoti e chierici congregati, sacerdoti e chierici convittori; a quest’ultima sezione si iscrisse nel 1729 il grande s. Alfonso Maria de’ Liguori, il quale però incoraggiato dal prima citato Pio Operaio Tommaso Falcoia, se ne allontanò scegliendo altre forme di apostolato nel reame di Napoli.
Questo non piacque a Matteo Ripa, il quale staccò ogni legame con l’antico direttore spirituale, con il quale era stato sempre in contatto epistolare anche dalla Cina. Il “Collegio per i cinesi” fu il primo Istituto Orientale d’Europa, beneficiando degli aiuti compiacenti di vari pontefici e con l’allargamento ad accogliere altri giovani orientali oltre che cinesi.
L’Opera fiorì egregiamente fino alla morte del fondatore Matteo Ripa, avvenuta il 29 marzo 1746 a Napoli; prima delle leggi di soppressione degli Enti e Ordini religiosi del 1866, i giovani cinesi preparati all’opera di evangelizzazione nel loro grande Paese d’origine, furono 106; fra essi vi sono anche dei martiri, come Simone Carlo Ciu, morto nel 1820; Filippo Liu morto nel 1785; Francesco Tien anche lui barbaramente trucidato; inoltre fra i suoi alunni vi furono numerosi futuri arcivescovi e vescovi.
Il Governo Italiano il 12 dicembre 1869 dichiarava il Collegio ente morale, cambiandone il nome in “Collegio Asiatico” di Napoli, togliendogli il suo vero scopo e sperperandone il patrimonio. I padri della Congregazione della S. Famiglia, lottarono per decenni per riaverne il possesso e riportarlo all’originaria destinazione del suo pio fondatore; gli atti giudiziari si susseguirono, finché pur avendo avuto ragione dal tribunale, il Governo con apposita legge del 27 settembre 1888 trasformava il Collegio in Regio Istituto Orientale.
L’Opera fu tanto apprezzata anche fuori dall’Italia; prima di conoscere l’Italia la Cina conosceva Napoli. Ancora oggi esiste a Napoli il prestigioso Istituto Universitario Orientale, unico in Italia, che è la continuazione della tradizione culturale e linguistica orientale, a livello universitario, del glorioso Istituto fondato alla Sanità nel XVIII secolo, anche se per evidenti motivi di numero d’iscritti, i suoi ampi locali sono ormai situati in altri posti della città partenopea.
L’antico Collegio fu trasformato in un ospedale per cronici; Eboli, la città natale di Matteo Ripa, gli ha intitolata una biblioteca e una delle principali strade; Napoli nel 1912 gli eresse un monumento nei pressi dell’antico ‘Collegio dei cinesi’. Il primo processo informativo fu celebrato a Napoli nel 1872-76.
Maddalena Rosa Notari nacque a Capriglia (Salerno) il 12 dicembre 1847, crebbe a Napoli in casa di uno zio e a sei anni venne messa nel convitto delle suore della Visitazione, per essere educata. Fin dall’infanzia conobbe la sofferenza, che accettò con consapevolezza e man mano che avanzava nella giovinezza la sua adesione a Dio aumentava maturando in lei l’ispirazione di offrire alla Chiesa una nuova famiglia religiosa; a 38 anni diede inizio con due compagne all’opera a Napoli, lo sparuto gruppetto iniziale aumentò di numero ed esse si trasferirono in provincia, prima a Portici e poi a S. Giorgio a Cremano dove fondò la casa madre.La nuova istituzione attirò l’attenzione dell’arcivescovo di Napoli, cardinale Guglielmo Sanfelice, cui la Notari sottopose la regola di vita, redatta anche con la sua guida; le nuove suore si chiamarono Crocifisse Adoratrici di Gesù Sacramentato ed ebbero un abito proprio, Maddalena Notari prese il nome di Maria Pia della Croce.
Nel 1894 si aprì una nuova casa a Castel S. Giorgio e l’anno successivo il 1895, un’altra a Nocera Superiore; nella casa madre di S. Giorgio a Cremano madre Notari impiantò un piccolo mulino a mano per la preparazione delle ostie occorrenti per la celebrazione della Messa e per la Comunione dei fedeli, nel contempo si provvedeva alla vinificazione di uve selezionate per la produzione del vino da consacrare; attività tuttora in corso, con macchinari più adeguati. L’istituto già canonicamente approvato dal cardinale Sanfelice nel 1892, venne definitivamente approvato nel 1915; nella nuova Congregazione confluirono tante giovani chiamate ad essere la voce del mondo espressa nella liturgia delle ore con la quotidiana “celebrazione corale” e nella diuturna “adorazione eucaristica”; a loro fu affidata la conduzione del complesso monumentale di S. Gregorio Armeno con annesso monastero, in Napoli già anticamente dei monaci basiliani e giacché nella chiesa vi è il veneratissimo corpo di s. Patrizia, vergine di Costantinopoli, le suore vengono chiamate dal popolo del centro antico di Napoli, le ‘suore di s. Patrizia’.
Sparse in varie regioni d’Italia, il loro ideale è giunto anche all’estero, in particolare nelle Filippine da dove affluiscono molte postulanti e suore.
Madre Maria Pia della Croce, morì il 1° luglio 1919 nella Casa di S. Giorgio a Cremano e ivi tumulata nella cappella.
Mariano Arciero nacque a Contursi (Salerno), il 26 febbraio 1707, in una famiglia di contadini laboriosi e pii. Da piccolo aiutava a pascolare il gregge. A otto anni andò a servizio presso il nobile Emanuele Parisio, giovane di grande pietà, che, diventato sacerdote, lo portò con sé a Napoli, come paggio.
Il piccolo, istruito da don Emanuele, cominciò a frequentare la scuola e a fare catechismo ai piccoli. Un giorno, a scuola, il maestro, per una falsa accusa, lo bastonò. Il suo educatore, don Emanuele Parisio, non solo non rimproverò il maestro, ma obbligò il piccolo Mariano a baciare le mani sia dell’insegnante sia di colui che lo aveva ingiustamente accusato. Fece questo per educarlo alla virtù della pazienza.
Il 22 dicembre del 1731 l’Arciero fu ordinato sacerdote. Il suo fervore nell’assidua lettura e memorizzazione della Sacra Scrittura rese il suo cuore biblioteca di Cristo. Morto don Emanuele, si trasferì a Cassano all’Ionio (Cosenza) invitato dal Vescovo di quella diocesi. Iniziò la sua missione percorrendo il contado e insegnando i rudimenti della fede ai grandi e ai piccoli.
Passò evangelizzando paesi e campagne, tanto da meritare il titolo di Apostolo delle Calabrie. Fu un missionario itinerante della parola di Gesù. Inoltre, accompagnò il vescovo nelle visite pastorali, restaurò molti edifici di culto, richiamò all’osservanza i monasteri, fondò opere di accoglienza per educare a un lavoro onesto le orfanelle.
Nel 1751, alla morte del Vescovo e dopo venti anni di permanenza nella diocesi di Cassano, don Mariano passò per un breve periodo a Contursi per riabbracciare la mamma, per poi rientrare definitivamente a Napoli. Nella capitale del Regno, si riaccese la fama della sua sapienza e delle sue virtù.
La sua vita era esemplare. Si contentava di ricevere giornalmente un pezzo di pane dai Padri dell’Oratorio e di prendere una minestra nel seminario diocesano. Le offerte che riceveva le donava in beneficenza ai bisognosi. Era instancabile al confessionale, tanto che bastava dire penitente di Don Mariano, per indicare una persona che viveva cristianamente.
Si spense serenamente e in odore di santità il 16 febbraio 1788. Le sue virtù eroiche furono riconosciute nel 1854 da Pio IX. I suoi resti mortali furono trasferiti da Napoli a Contursi il 15 ottobre del 1950. Si risvegliò allora una forte devozione dei contursani e dopo appena tre mesi, nella notte tra il 26 e il 27 gennaio 1951, avvenne il miracolo della straordinaria guarigione della signora Concettina Siani.
Possiamo ridurre a tre, le caratteristiche più rilevanti della santità del nostro Beato. Egli fu apostolo della catechesi, difensore degli ultimi e araldo del Vangelo.
Consapevole che l’ignoranza religiosa era la causa della cattiva condotta e dei peccati del popolo, il Beato Mariano Arciero fu un instancabile catechista. Sovente impiegava più di sei ore nella catechesi ai piccoli, raccogliendoli dalle strade, insegnando loro delle canzoncine e, infine, istruendoli sulla fede. Accorrevano alle sue istruzioni anche gli adulti e gli stessi sacerdoti, per apprendere il metodo di come insegnare con frutto la dottrina cristiana.
In secondo luogo, don Mariano era sempre pronto a sovvenire ai bisogni degli indigenti. Egli stesso viveva da povero: abitava in un misero tugurio, prendeva il cibo per elemosina in seminario, si vestiva con indumenti donati dai benefattori, dispensava ai poveri le offerte ricevute, vegliava sulla mortificazione dei sensi, portava con gioia la croce delle sofferenze e delle umiliazioni. Con le offerte che riceveva contribuì a costruire chiese, riparare cappelle, sostenere famiglie in difficoltà, aiutare alcuni nipoti a seguire gli studi. Un nipote si fece cappuccino, un altro alcantarino e un terzo sacerdote diocesano. Confidando nella divina provvidenza portò a termine tante opere buone.
Queste opere di carità erano sostenute dal suo fervore eucaristico. Chiamava affettuosamente Gesù Sacramentato, la gioia bella, l’amore mio, il pazzo d’amore. Quando parlava dell’eucaristia sembrava volare dal pulpito all’altare, per adorare il Santissimo. Un giorno, in Calabria, il popolo desiderava la pioggia. Egli aprì il tabernacolo, dicendo: «Gesù Cristo è con noi: egli può farci la grazia; pregatelo». Ed ecco venir giù una pioggia abbondante e inaspettata.
Era grandemente persuaso della dignità del sacerdote, che – diceva – con il suo potere sull’eucaristia è superiore sia agli angeli, perché fa discendere Dio dal cielo sulla terra, sia a Maria Santissima, perché ella fece discendere Dio una sola volta sulla terra, mentre il sacerdote sempre.
Infine, il nostro Beato non si stancava di esortare ad avere fede in Cristo e nella sua parola di vita. Una cura particolare la riservava all’istruzione dei sacerdoti. Per quasi un trentennio fu predicatore del seminario diocesano di Napoli, diventando formatore sapiente e apprezzato.
Don Mariano predicava anche nelle chiese della città, confortando con la sua parola, vescovi e sacerdoti, nobili e plebei, giovani e anziani. Non pochi furono mossi dalla sua parola alla conversione dei costumi. Un giorno Francesco Mastrosanto, un mangiapreti incallito, sentì predicare il nostro Beato. Entrò in chiesa con l’intenzione di cogliere qualche parola fuori posto, per poterne fare una satira e appenderla per dispregio alla porta della chiesa. Ma non trovò niente da censurare. Ritornò il giorno dopo con la stessa empia intenzione. Ma avvenne che, colpito dalla grazia, scoppiò a piangere, pentendosi dei propri peccati. Divenne un grande penitente e, avvertendo la vocazione, si fece sacerdote e visse e morì da santo.
Un avvocato napoletano, Giacomo Migliaccio, dalle parole accorate dell’Arciero si rese conto dei pericoli spirituali della sua professione, si fece Redentorista, dedicandosi con zelo alle fatiche apostoliche, tanto da essere chiamato l’Angelo della Congregazione.
Queste tre caratteristiche – catechesi, carità e predicazione – venivano elevate al grado eroico dalla sua umiltà, che fu il sigillo della sua santità. Ricordava spesso che da piccolo era stato servo, custode di capre e di maiali; che la mamma sosteneva la famiglia trasportando l’acqua nelle case; che, da piccolo, insieme alla mamma andava a cogliere i grappoli e le olive, che dopo la vendemmia e la raccolta venivano lasciati ai poveri.
Ai sacerdoti ricordava che, per esercitare degnamente l’ordine sacro, il sacerdote deve avere una bontà super eccellente. È la santità e il buon esempio dei sacerdoti a edificare e convertire i fedeli, così come, purtroppo, è la loro cattiva condotta a diventare veleno, che inquina l’acqua di sorgente della grazia divina.
In conclusione, è grandemente attuale questo sacerdote vissuto più di due secoli fa. Instancabile evangelizzatore. annunziava la parola di Gesù con entusiasmo, suscitando conversione, speranza e gioia. Si fece guida a Cristo buon pastore, riconducendo a lui i cuori affranti e smarriti e aprendoli alla speranza, alla fiducia, all’ottimismo, nonostante le difficoltà e gli ostacoli di ogni genere.