Gregorio VII è uno dei più grandi papi della storia. Secondo la tradizione egli nacque a Sovana presso Grosseto, verso il 1020, dal fabbro Bonizone il quale al fonte battesimale volle che fosse chiamato Ildebrando.
Ricevette la prima formazione a Roma dallo zio, abate di S. Maria in Aventino. Fu quindi educato nel palazzo lateranense da due celebri precettori: Lorenzo, ex-arci vescovo di Amalfi, e l’arciprete Giovanni Graziano. Costui fu eletto dai romani papa col nome di Gregorio VI dopo che aveva indotto l’indegno adolescente Benedetto IX, suo figlioccio, ad abdicare, versandogli una somma di denaro. Nel sinodo di Sutri (1046), tenuto alla presenza di Enrico III, imperatore di Germania, Gregorio depose spontaneamente la sua dignità protestando di aver agito in buona fede, non per simonia.
Ildebrando, riluttante, lo seguì in esilio a Colonia, in qualità di suo cappellano. In quel tempo vestì l’abito benedettino. Quando però Bruno di Toul fu eletto papa, nella dieta di Worms, col nome di Leone IX, il giovane monaco fu invitato a ritornare a Roma suo malgrado. Per trent’anni Ildebrando fiancheggerà come consigliere, teologo, canonista, diplomatico e legato, l’opera di riforma di cinque pontefici, impegnati a combattere il concubinato del clero e la simonia. Leone IX lo ordinò suddiacono e lo fece priore ed economo del monastero di San Paolo fuori le mura perché riformasse la disciplina monastica e restaurasse la basilica. Stefano IX lo ordinò diacono e lo costituì arcidiacono della Chiesa romana, Alessandro II lo creò cardinale e cancelliere della medesima. Quando costui morì, tutto il popolo acclamò Ildebrando papa appena terminarono i funerali nella basilica di San Giovanni in Laterano. L’elezione fu fatta subito dopo dai cardinali nella chiesa di San Pietro in Vincoli. L’austero monaco si chiamò Gregorio. Aveva compiuto cinquant’anni, era pallido e piccolissimo di statura. Si fece ordinare prete, vescovo e quindi intronizzare con il beneplacito di Enrico IV il 30-6-1073.
Conscio della somma potestà che gli derivava dall’essere il successore di S. Pietro, si pose subito ad attuare il programma di riforma già vigorosamente iniziato dai suoi predecessori con l’aiuto di due intrepidi e focosi monaci: Umberto da Selva Candida (+1061) e S. Pier Damiani (+1072). Vera tempra di lottatore, estremamente volitivo, perspicace e di carattere impetuoso – non per nulla il Damiani lo aveva chiamato “santo satana” – Gregorio VII era l’uomo più indicato per rivendicare alla Chiesa le sue libertà, e far trionfare la giustizia e la pace nella sottomissione al Vicario di Cristo delle potenze secolari in tutto ciò che riguardava la salvezza del mondo cristiano.
Lo stesso anno in cui fu eletto papa, Enrico IV, intelligente ma superbo, falso e vizioso, nel tentativo di restaurare la sua autorità all’interno della Germania, aveva dichiarato guerra alla Sassonia, il più potente feudo dell’impero, ed era stato sconfitto e umiliato. Si rivolse allora al papa per averne l’appoggio, mostrandosi favorevole ai piani di riforma e promettendo di emendarsi da traffici simoniaci. Confidando nell’indispensabile unione tra il sacerdozio e l’autorità civile per il risanamento della società, Gregorio VII, nel sinodo quaresimale del 1074, rinnovò i decreti di scomunica contro la simonia e il concubinato del clero, omessi dai suoi predecessori, proibì l’esercizio delle funzioni religiose ai preti sposati e incitò il popolo a tenersene lontano. Nonostante le agitazioni e le ribellioni suscitate, il papa sostenne i suoi principi che davano esecuzione ad una antica legge ecclesiastica, convinto che lo stato matrimoniale fosse inconciliabile col sacerdozio.
Tuttavia, le cause principali degli scandali della chiesa erano l’eccessiva implicazione del clero negli interessi terreni, e il dominio dei laici negli affari ecclesiastici. Per tagliare i mali alla radice, nel sinodo del 1075 l’intrepido pontefice proibì anche ogni conferimento di uffici ecclesiastici da parte di laici e, in particolare, l’investitura dei vescovi per mano del re di Germania mediante la consegna simbolica del pastorale e dell’anello.
Contro simile decreto, sovvertitore della secolare consuetudine e della potenza imperiale, insorsero i signori feudali. Enrico IV scese decisamente in lotta aperta . Inebriato della vittoria conseguita sui Sassoni lo stesso anno, riprese i rapporti con i consiglieri scomunicati e nominò i titolari di parecchie diocesi, tra cui quella di Milano, che non era neppure vacante. Alla sua corte accolse persino un Cencio, capo dei malcontenti di Roma, il quale era riuscito a catturare il papa la notte di Natale mentre celebrava la Messa e rinchiuderlo grondante sangue in una torre. Il papa fece allo sconsiderato imperatore nuove rimostranze, gli rimproverò l’intrusione a Milano di Tedaldo, antiriformista, si dichiarò pronto ad un accordo, ma oralmente lo fece minacciare di scomunica e di deposizione qualora si fosse ostinato nella disubbidienza. Per tutta risposta Enrico IV convocò una dieta a Worms, nel gennaio del 1076, in cui ventisei vescovi condannarono e deposero Gregorio VII. Il re stesso, nella sua veste di patrizio romano, diresse a Ildebrando “falso monaco e non più papa” una lettera per ordinargli di scendere dalla cattedra “usurpata”. Un mese dopo il papa lanciò la scomunica contro Enrico, gl’interdisse il governo della Germania e dell’Italia e sciolse i sudditi dal giuramento di fedeltà.
L’Europa rimase sbalordita dì fronte a quella punizione fino allora inaudita. Attorno all’imperatore si fece il vuoto. I Sassoni si risollevarono e i principi nella dieta di Tribur, presso Magonza, decisero di abbandonare definitivamente Enrico se fosse rimasto nella scomunica per più di un anno. Una dieta da tenersi ad Augusta il 2-2-1077 avrebbe deciso in proposito alla presenza del papa, invitato a intervenirvi in funzione di arbitro. Enrico comprese che la sua situazione era drammatica. Piuttosto di umiliarsi dinanzi ai propri vassalli, preferì scendere con poca scorta in Italia, attraverso il Moncenisio, per umiliarsi dinanzi al papa. Gregorio VII, già in viaggio verso Augusta, alla notizia del suo arrivo si era chiuso nella rocca di Canossa (Emilia) della marchesa Matilde, seguace fedele e incondizionata del papato. Enrico si presentò per tre giorni successivi alle porte del castello “scalzo e vestito di saio come un penitente” (Reg. 4, 12) sollecitando l’ammissione e implorante l’assoluzione dalla scomunica. Dopo prolungate trattative, per i buoni uffici della suocera Adelaide di Susa, della cugina Matilde di Canossa e del padrino S. Ugo di Cluny, al quarto giorno ottenne di essere assolto e comunicato dal papa. Enrico riusciva così a spezzare il cerchio dei suoi avversari, mentre il papa, in quell’occasione più sacerdote che statista, si lasciava sfuggire di mano importanti vantaggi politici.
L’atto generoso di Gregorio non aveva soddisfatto appieno Enrico il quale avrebbe voluto, con l’assoluzione, anche la restituzione del trono, e aveva intiepidito i principi germanici i quali dessero nuovo re Rodolfo di Svezia, ambizioso cognato di Enrico. Nella guerra civile che ne seguì il papa tentò di porsi arbitro tra i due contendenti, ma Enrico, superiore di forze, con la minaccia di far eleggere un antipapa, chiese il riconoscimento per sé e la scomunica per suo cognato. Gregorio, invece, nel sinodo quaresimale del 1080, rinnovò la scomunica e la deposizione di Enrico, confermò Rodolfo e rinnovò il decreto dell’investitura con l’aggravante della scomunica. Nel sinodo tenuto a Bressanone poco dopo, Enrico fece di nuovo dichiarare dai vescovi Gregorio VII deposto. Al suo posto fu eletto Viberto, arcivescovo di Ravenna, con il nome di Clemente III.
Dopo la morte di Rodolfo in battaglia, Enrico sì trasferì in Italia con il suo esercito. Solo dopo quattro anni riuscì a entrare in Roma e occuparla (1084), fatta eccezione di Castel S. Angelo, in cui il papa ancora resisteva.
Tredici cardinali passarono dalla parte di Clemente il quale, a Pasqua, incontrò Enrico imperatore. Gregorio sarebbe caduto in mano del suo avversario se, al suo grido di aiuto, non fosse giunto Roberto il Guiscardo, vassallo della Chiesa, che costrinse i tedeschi alla ritirata. Ma il saccheggio e l’atroce devastazione compiuti dalle sue soldatesche mercenarie provocarono tale inasprimento dei cittadini contro Gregorio, che gli resero impossibile la permanenza in città. Si ritirò quindi a Salerno, capitale dei normanni, dove morì il 25-5-1085 esclamando con il salmista: “Ho amato la giustizia e odiato l’iniquità, perciò muoio in esilio”. (SI. 44, 8). Fu sepolto nel duomo. Non fu canonizzato formalmente, però Benedetto XIII ne estese la memoria a tutta la Chiesa nel 1728.
Con la sua morte sembrava sancita la sconfitta del papato per sempre. Era vero invece il contrario. I successori di Gregorio VII raccoglieranno il frutto del suo apparente insuccesso: il consolidamento dell’autorità giuridica, morale e politica della Chiesa che avrà il suo apogeo con Innocenzo III. Neppure egli era conscio del grande bene che operava per la santità e l’unione della Chiesa. Alla fine della sua esistenza terrena scriveva scoraggiato: “Da molto tempo chiedo all’onnipotente Signore di togliermi da questa vita o di rendermi utile alla nostra santa Madre Chiesa, e tuttavia né Egli mi ha tolto dalle mie afflizioni, né mi ha permesso di rendere alla Chiesa i servizi che vorrei” (Reg. 2, 49).
Nonostante che l’idea dominante di questo pontefice, quale appare dal tanto discusso documento detto Dictatus papae, fosse quella della supremazia del papato sull’impero, tuttavia non si può mettere in dubbio la rettitudine del suo operato in difesa dei diritti della Chiesa. Nel 1076 scrisse infatti ai principi e ai vescovi della Germania: “In questi giorni di pericolo, in cui l’anticristo si agita in tutte le sue membra, si troverebbe invano un uomo che preferisca sinceramente l’interesse di Dio ai suoi propri comodi… Voi mi siete testimoni che nessuna idea di secolare potenza mi ha spinto contro i principi cattivi e i sacerdoti empi, ma la comprensione del mio dovere e della missione della Sede Apostolica. Meglio per noi subire la morte da parte dei tiranni che, col nostro silenzio, renderci complici dell’empietà”.
Questo “acerrimo difensore della Chiesa” fu pure il primo a concepire l’idea di una crociata. Egli progettò nel 1074 di recarsi personalmente alla testa di un grande esercito in Oriente, per liberare il Santo Sepolcro caduto nel 1070 in mano ai Turchi, e rinnovare l’unione con la Chiesa greca.
Prima della sua elevazione al pontificato romano, egli aveva favorito l’occupazione dell’Inghilterra nel 1066 da parte di Guglielmo I, duca di Normandia. In quella spedizione egli aveva visto una crociata e nel suo capo un campione della Chiesa contro la simonia. E noto pure quanto si sia adoperato per l’estinzione dell’eresia di Berengario, che insegnava a Tours, il quale sosteneva che l’Eucarestia è soltanto segno o simbolo del corpo di Cristo. Il Concilio tenuto nel 1054 in quella città sotto la presidenza del legato pontificio Ildebrando, si era accontentato della sua dichiarazione che il pane e il vino sull’altare dopo la consacrazione sono corpo e sangue di Cristo. Essendo in seguito ricaduto nel medesimo errore, Gregorio VII lo fece venire a Roma e nel sinodo quaresimale del 1079 l’obbligò ad accettare la dottrina ecclesiastica della “transostanziazione”.
Autore: Guido Pettinati
Le ricognizioni canoniche delle reliquie di San Gregorio VII.pdf